La zanzara anofele è il protagonista di una intricata vicenda che si è svolta nel nostro Paese, vicenda iniziata all’epoca dell’Unità, e trascinatasi fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale. In questo thriller, alla zanzara anofele è spettato senza dubbio il ruolo del cattivo: prima ha agito nell’ombra mietendo vittime indifese, poi è stata riconosciuta, ha lottato strenuamente, infine è stata sconfitta, ma non del tutto debellata, solo allontanata. Questa trama appassionante è un eccellente esempio di lotta integrata ad un parassita: la lotta è stata multidisciplinare, estremamente complessa, e la disinfestazione vera e propria, utilizzata nel finale, è stata solo una delle tante armi, tutte necessarie, ma nessuna da sola bastevole a sconfiggere il nemico.
Ancora sul finire del 1800 larghe parti del nostro territorio erano gravemente minacciate della malaria. I casi erano frequentissimi lungo tutta la costa ed i corsi dei principali fiumi. Ma il problema era grave soprattutto nelle regioni paludose, alla foce del Po, in maremma, nel Lazio e nella Sardegna occidentale, dove era praticamente impossibile non contrarre il morbo. Il nome della malattia deve la sua origine proprio ai miasmi di queste paludi, che a lungo si è pensato fossero in qualche modo l’origine del problema: mal’aria. Ancora nel 1881, nel romanzo I Malavoglia si descrive un caso di infezione da malaria che denuncia conoscenze immunologiche piuttosto vaghe da parte dell’autore. Fu un gruppo di biologi, italiani e non solo, ad identificare negli ultimi due decenni dell’Ottocento, prima il microrganismo agente della malattia, poi il suo vettore.
La causa della malaria sono diverse forme di plasmodi, che compiono alcune fasi del loro ciclo nei tessuti della zanzara, ed altre nei tessuti dell’uomo, passando dall’una all’altro tramite le punture. Plasmodium malariae è stato il primo di questi agenti ad essere descritto nel 1889 da Raimondo Feletti e Giovanni Battista Grassi; è il plasmodio all’origine delle febbri quartane. Esse coincidono con la lisi dei globuli rossi, che si verifica dopo 72 ore di accrescimento del plasmodio nel sangue. Febbri terzane, più ravvicinate, sono causate da altri plasmodi, tra i quali il più letale è Plasmodium falciporum.
Successivamente Grassi accertò i legami tra i plasmodi e le zanzare del genere Anopheles. Negli stessi anni alle stesse conclusioni arrivava il clinico britannico Ronald Ross, ma solo quest’ultimo fu poi insignito del Nobel. Il primo e più noto esperimento condotto in campo per dimostrare la responsabilità delle zanzare, fu la miglioria delle strutture nelle quali vivevano i braccianti, nelle zone di Ostia e di Paestum. Sapendo che la zanzara è attiva e punge durante le ore crepuscolari e serali, a costoro venne chiesto di ritirarsi in quelle ore all’interno di abitazioni ben protette da apposite zanzariere. I risultati furono eccellenti. Che se ne rendessero conto oppure no, avevano inventato la lotta integrata.
Il primo rimedio che fu proposto per difendersi dalla zanzara anofele e dalla pericolose conseguenze della sua puntura, fu quindi un meccanismo di esclusione. Chiunque faccia disinfestazione quotidianamente, sa benissimo quali siano le difficoltà nel convincere un cliente ad apportare delle modifiche strutturali atte a risolvere o arginare un problema. Preferirebbero sempre che noi estraessimo la bacchetta magica. È quindi facile immaginare quali furono le difficoltà che Grassi ed i naturalisti della sua scuola incontrarono nel proporre le loro soluzioni di buon senso. Tali soluzioni, a 120 anni di distanza, possono apparire a prima vista ovvie; se tuttavia osserviamo le porte e le finestre di un laboratorio artigianale di panetteria o della cucina di un ristorante oggi, nel 2016, dobbiamo ammettere che in alcuni casi, tanto ovvie le loro indicazioni non lo sono ancora.
La gente continuava purtroppo a vivere in case di fortuna, con finestre mal protette nelle quali al tramonto le zanzare potevano entrare e nutrirsi a piacimento. I rimedi dovettero moltiplicarsi. Ora che ne conoscevano le cause, i medici si fecero carico di una vastissima campagna di diagnosi della malattia. Se ne studiò meglio il ciclo, e si utilizzò con criterio il chinino. Lo Stato istituì su questo prezioso composto il Monopolio. Le maestre andarono nei paesi più minuscoli ed insegnarono quelle pratiche di igiene che potevano salvare la vita delle persone. Intere regioni furono bonificate, e questa, sebbene sia stato uno scempio agli occhi del naturalista di oggi, fu una soluzione efficacissima per limitare la diffusione degli insetti vettore: togliere habitat all’animale target.
All’inizio della Seconda Guerra Mondiale, la malaria nel nostro Paese era ormai limitata a zone ristrette. Migliaia di persone rimanevano comunque a rischio di infezione, anche se il numero di morti era drasticamente ridotto.
L’inizio della disinfestazione attiva per combattere la malaria può essere datato al 1939: fu in quell’anno che si diede il via in Sardegna ad un massiccio piano di distribuzione di DDT. Era passato poco più di mezzo secolo dalle prime intuizioni di G.B. Grassi. In tutti quegli anni la lotta alla malaria, e alla zanzara suo vettore, era stata attuata mediante: analisi del problema; introduzione di buone pratiche comportamentali, volte a contrastare la malattia sia direttamente, sia indirettamente attraverso il suo vettore; cura clinica della malattia; sistemi di esclusione del vettore; provvedimenti di riduzione delle zone di nidificazione del vettore. In poche parole: lotta integrata, su scala nazionale.
Solo a valle di queste azioni, si ricorse alla distribuzione generalizzata di insetticidi. L’utilizzo del DDT diede i risultati sperati: non solo in Italia, ma in tutta l’Europa e nel Nord America la malaria fu eradicata nel giro di circa due decenni.
Negli anni ’60 si diffuse poi la consapevolezza sui molteplici effetti collaterali della molecola utilizzata per la disinfestazione. Il DDT ha parecchie controindicazioni: il suo tempo di degradazione è altissimo, rimane perciò nell’ambiente senza scomporsi anche per anni. Certo questo oggi sarebbe il sogno di ogni disinfestatore che distribuisca prodotti residuali, ma il DDT, ed i composti derivanti dalla sua decomposizione, sono altamente tossici, non solo per l’uomo ma per molti organismi viventi, non target, che ad esso vengano esposti. La sua difficile degradazione è quindi una vera bomba ad orologeria. In realtà gli effetti cancerogeni del DDT non sono mai stati chiariti del tutto. Sebbene si tratti certamente di un composto tossico, parte della sua pessima fama è dovuta al suo essere la prima molecola che abbia fatto parlare di sé in quanto utile, ma velenosa. La nostra coscienza ambientale nei confronti delle molecole tossiche prodotte industrialmente dall’uomo, poggia anche sulla campagna portata avanti per la messa al bando del DDT.
Il DDT non può più essere utilizzato in Italia e in Europa a partire dal 1978. Si è comunque continuato a produrlo, per destinarlo al mercato estero, almeno fino al 1997. Nei Paesi dove la malaria rappresenta ancora un’emergenza, il dibattito sull’utilizzo di questo efficacissimo insetticida rimane però aperto. Non è certo l’unica molecola insetticida conosciuta. Ne abbiamo a disposizione ogni giorno decine differenti e con profili di tossicità sempre meno marcati. Tuttavia l’utilizzo del DDT in talune aree conviene ancora, sia per l’alta residualità del composto, sia per il suo basso costo. Sono segnalati casi di resistenza, in India soprattutto dove alcune specie di Anopheles non sono più sensibili all’insetticida. L’abbandono del DDT è stato comunque tentato in zone dove la malaria rimane endemica: in Sudafrica meno di vent’anni fa nella provincia di Kwazulu i casi di malaria ebbero un’impennata non appena si sospesero i trattamenti. I tentativi di procedere con più costosi insetticidi a minore residualità e minore tossicità si sono rivelati poco efficaci.
Come spesso accade nel valutare i nostri progressi scientifici, e le accresciute capacità tecniche, è impossibile mettere sui due piatti della bilancia il nostro benessere e le conseguenze delle nostre azioni, peraltro difficilmente prevedibili. Agire sempre in maniera ponderata, con pazienza e con tanta passione per la conoscenza di ciò che si sta facendo: questo è l’insegnamento che Grassi e gli altri protagonisti di quella vicenda ci hanno dato.